lunedì 28 febbraio 2011

Fernando Marchiori per rEsistere: Carne in scatola

Nel percorso che portò alla pubblicazione del volume Megaloop. L'arte scenica di Tam Teatromusica (Titivillus 2010) – due anni di lavoro, il confronto con molti testimoni, artisti, studiosi, e in particolare con Antonio Attisani, Cristina Grazioli, Riccardo Caldura e Veniero Rizzardi – si pose subito la questione di come trattare, all'interno dell'articolata produzione Tam, lo specifico del Teatro Carcere. A differenza dell'Archivio Tam, che parallelamente Pierangela Allegro e Michele Sambin andavano completando e nel quale fu realizzata una raccolta a sé stante delle produzioni "carcerarie" in sei dvd, nel libro si decise di comune accordo di non affrontare questa declinazione del lavoro Tam in una sezione a parte, perpetrando anche in sede critica la segregazione e la separatezza già subite nei seminari e negli allestimenti reclusi. Il discorso su Tam Teatrocarcere è così affiorato liberamente all'interno dei diversi contributi teorici e della ricostruzione storica che andavamo tessendo con andamento a spirale, in un loop sempre aperto di temi, forme, linguaggi, domande. Sono convinto che è stata la scelta giusta e che il teatrocarcere ha avuto in questo modo un'attenzione e una comprensione altrimenti impossibili.
Se ripenso oggi all'esperienza Tam Teatrocarcere, un'immagine s'impone sulle altre: carne in scatola. Non solo per l'idea di quei corpi grami costretti in celle anguste e respiri corti, ma soprattutto perché questa era l'espressione usata da Sambin quando Tam realizzò quella meraviglia delle MeditAzioni, incarnando nei detenuti del Due Palazzi gli affreschi giotteschi della Cappella Scrovegni. Di fronte al mancato permesso d'uscita dei detenuti per presentare lo spettacolo all’esterno del carcere, Michele e Pierangela decisero – con la rabbia e la determinazione di un gesto che era già esso stesso teatrale – di riprendere con la videocamera quei corpi e quei volti per portarli fuori lo stesso, per farli evadere tutti, almeno virtualmente: carne nelle scatole dei monitor, protagonisti nella loro assenza forzata.
Basta questa esperienza, tra le tante, di Tam nel carcere padovano per ribadire l’importanza del teatro per i detenuti e per la stessa istituzione carceraria. È convinzione comune a operatori, artisti, studiosi, suffragata dalle numerose e diverse pratiche diffuse in Italia, che nel teatro i detenuti possono “lavorare su di sé” e uscire dalla propria condizione psicologica, scoprire altri aspetti della propria personalità; in quel gioco di ruoli che è il teatro possono impostare nuove relazioni tra di loro e con l’istituzione; l’istituzione stessa può, attraverso queste attività, presentarsi con un volto diverso, affrontare situazione di conflitto, aprirsi al territorio, perfino produrre qualcosa da portare all’esterno, da “vendere”.
Ciò che tuttavia mi sembra fondamentale è il fatto che il teatro in carcere serve anche al teatro stesso. Questa terra di mezzo tra dentro e fuori, tra guardie e ladri, questo spazio sospeso tra inclusione ed esclusione è essenziale per gli artisti quanto per i detenuti. È un “terzo paesaggio” dei rapporti sociali nelle cui sfrangiature e porosità s’incontra una banda di “non integrati”, di marginali in modi differenti ma corrispondenti. Un terzo paesaggio in cui lo spazio del conflitto diventa interiore per sublimare l’ordine sociale e violare l’ordine del discorso. Un terzo paesaggio in cui il panopticon foucaultiano viene rovesciato e il teatro da luogo della visione concentrica diventa sguardo moltiplicato e interrogante verso il fuori. Un terzo paesaggio anche della pratica attorale, pericolosamente in equilibrio tra le due dimensioni estreme che Grotowski ha definito teatro della rappresentazione e arte come veicolo. Una sfida per lo stesso discorso critico, costretto a inventare strategie di avvicinamento alternative a quella che Antonio Attisani chiamerebbe una “critica giudiziaria”.
In questo spazio non vuoto, ma anzi ingombro delle macerie di tante esistenze, il teatro porta forme, linguaggi, domande, e incontra inquietudini, energie, vita pulsante. Ciò di cui ha sempre profondamente bisogno. È il motivo artistico (altrettanto essenziale di quello etico) per cui il teatro va da sempre in cerca dei “diversi”, siano essi i carcerati o gli handicappati, i matti o gli immigrati. Scriveva Artaud in una delle sue deliranti lettere alla posterità – Artaud il matto, il recluso, il santo patrono del teatrocarcere – che danzare, fare teatro è soffire il mito, e dunque sostituirlo con la realtà. Ecco, quella carne in scatola, quei corpi conformati alle posture giottesche incarnano miti perché li soffrono, rianimano grandi storie mentre le patiscono, riportano il fuoco dentro le tecniche facendo rinascere il teatro.
Fernando Marchiori

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