mercoledì 2 febbraio 2011

http://mattinopadova.gelocal.it/cronaca/2010/12/15/news/il-teatro-e-liberta-non-toglietecelo-2978051
«Il teatro è libertà, non toglietecelo»
di Alberta Pierobon
Tagliati dalla Regione i laboratori al Due Palazzi: parlano i detenuti-attori

Niente più laboratori teatrali nella casa di reclusione Due Palazzi, dove 830 persone con pene definitive si accalcano in celle pensate per ospitarne 350. Ma anche dove i muri dei corridoi sono una fantasmagoria di murales dipinti dai detenuti, dove c'è uno spazio-studio per chi frequenta l'università, dove c'è la redazione della rivista Ristretti Orizzonti; dove insegnanti fanno scuola: medie e ragioneria (quest'ultimo corso traballante sotto la scure della legge Gelmini). Dove la cooperativa Giotto di Comunione e Liberazione ha formato un tot detenuti-pasticceri che lavorano come matti in 14 alla volta dentro una cucina di 30 metri quadrati, sfornano panettoni in vendita a 30 euro l'uno e non stanno dietro alle ordinazioni. Niente più teatro perchè la Regione ci ha dato un taglio, uno dei tanti: non pubblica più il bando e pare demandi agli enti locali la faccenda. Non serve molto, un finanziamento di 9 mila euro l'anno, il patrocinio e soprattutto la volontà. Ma per ora tutto è fermo, congelato come la speranza della quarantina di detenuti-attori che, ogni martedì e mercoledì dalle 9 alle 11, si buttavano con trasporto e coinvogimento dentro quella luce. Pare un'immagine retorica, ma non lo è. Tam Teatromusica è dal 1992 che opera al Due Palazzi con i laboratori ma anche portando in carcere personaggi della cultura, prima con gli «storici» Michele Sambin e Mariangela Allegro, dal 2004 con gli appassionati Cinzia Zanellato e Andrea Pennacchi assieme a una quindicina di attori volontari di età varie e uguale entusiasmo. Dall'insegnante di latino al Tito Livio, in pensione, che in scena raccoglie sotto ali di fantasia, e stringe a sé, l'africano Sam, il tunisino Mohamed, l'italiano Luca, tutti distanti decenni dalla fine pena; fino al giovane Filippo, educatore di professione, colpito al cuore «dalla capacità che hanno i detenuti di raccontarsi: qui siamo tutti sullo stesso piano, si lavora sui ricordi, le esperienze. E qui ogni movimento dell'anima è amplificato, risuona come un tamburo». Insieme hanno prodotto spettacoli, li hanno portati in giro assieme ai detenuti che potevano accedere ai permessi, rappresentati in carcere, alle scuole. E, dal tutto, è anche nato un detenuto-attore semi professionista: Farid, 41 anni, algerino, protagonista con Andrea Pennacchi della pièce «Annibale non l'ha mai fatto» sul tema della migrazione che è stato presentato a festival e sarà in febbraio alle Maddalene per le scuole. Farid si presenta: «Vivo e penso positivo» il che, considerata la situazione, non è da poco. E poi parte: «Fin da piccolo mi piacevano gli spettacoli: scappavo da scuola, mettevo i libri tra i rami di un albero e andavo a guardare il cinema di nascosto. E poi mio papà era un grande raccontatore. Qui per due anni ho sbirciato quello che succedeva durante i laboratori teatrali, restando fuori dalla porta. Poi ho fatto la domandina (in carcere sono tutte «domandine») e ho cominciato anch'io. Da un filo abbiamo costruito una rete di cultura e persone, e ancora si può allargare. Impari sempre, dalla culla alla tomba, diciamo al Paese mio. Speriamo tutti che gruppo torni, è talmente importante: ci ha anche fatti conoscere tra di noi, è uno scambio, come fosse un suk». Sono una quindicina i detenuti-attori, raccolti assieme a Cinzia Zanellato e una decina di volontari del Tam, nella sala teatro del Due Palazzi, dove si tenevano i laboratori e gli spettacoli. Raccontano tutti la stessa storia, per ognuno diversa, ovvero di come quei due giorni di teatro assieme ad esterni, attesi per tutta la settimana, riescano a cambiare la vita in carcere, ad aprire cuore e testa. E tutti chiedono: non toglietecela, questa risorsa. Per favore. Lo spiega bene Giovanni, 55 anni, in carcere per reati finanziari: «Il teatro serve a recuperare l'elasticità che qui si perde: ti senti sempre più impacciato; è tutto ristretto, anche la testa diventa ristretta. E poi la rieducazione passa solo per l'attività», conclude e scappa via, ché è uno dei fortunati che lavora in carcere. E' Mohamed, 41 anni, a continuare: «Sono contento della vostra presenza qui (dice rivolto ai teatranti esterni e ai giornalisti arrivati per la singolare conferenza stampa), vuol dire che siamo nei pensieri di qualcuno». E' la peggiore delle condanne il senso di abbandono, di isolamento, di straniamento anche da se stessi, che nel caso degli stranieri è totale: soli, senza nessuno fuori che manco i permessi ottengono per mancanza di appoggio esterno. «Mi ha fatto ringiovanire di 20 anni il teatro - racconta Giovanni, 52 anni, andazzo da buona forchetta e saporite battute - Sono un irriducibile di questo «reato» nuovo, non è ancora nel codice penale ma lo metteranno!». E conclude: «Se butti un litro d'acqua in mare, non si nota. Ma se lo butti in un pezzetto di terra secca e lì c'è un seme, lo vedi nascere. Questo è il gesto di Cinzia, Andrea e del Tam qui con noi. Mi manca molto il teatro, lo dico con rammarico ed emozione». Parlano gli attori esterni (Giulia: «Qui si vive del presente, non ci si sente giudicati»; Cinzia, la coordinatrice: «Vivono compressi ma hanno una capacità di tolleranza e convivenza tra persone di diverse nazionalità, stupefacenti. Tra tutti noi si è creata una relazione di condivisione e conoscenza, e avere un ponte con l'esterno per i detenuti è vitale»). E continuano gli attori di stanza al Due Palazzi: «Pensare al teatro per me vuol dire libertà», sintetico ed efficace Ferchichi, 30 anni, tunisino. «Quando sono entrato in carcere ero svuotato, ogni mattina pregavo Dio: aiutami - racconta Sam Brown, nigeriano, viso intenso e voce fatta per cantare - Poi ho fatto la domandina per l'attività e ho cominciato. Il primo giorno mi pareva un gioco da bambini, ridicolo. Poi, pian piano, ho visto la mia vita cambiare, mi sono ricaricato. Ho speranza che qualcuno ci aiuti a continuare». «Io vivevo per conto mio, chiuso nel mio sentirmi inadeguato - interviene Luca, 36 anni, sardo, elegante ed aitante - Poi fare teatro, imparare ad esprimermi mi ha portato a fare cose che mai avrei pensato: addirittura recitare una parte da solo. Un amico che è in carcere in Sardegna mi ha detto: anche se qui avresti la famiglia vicino, stai a Padova, dove puoi fare delle attività. Qui vivresti sospeso, alienato, solo in attesa del fine pena. Ed è la morte».

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